Mi ero innamorato di lei, Lella, vedendola ogni giorno al self service della zona industriale dove lavoravo. Avevo intuito che lavorava nel marketing di qualche azienda di lì perché quando la sentivo parlare non capivo nulla di quello che diceva.
Cercavo di mettermi in coda quando arrivava con la sua amica per starle il più vicino possibile e tentavo di starle avanti in modo da poter essere io a passarle il vassoio e la tovaglietta di carta. Quando ci riuscivo mi sorrideva e continuava a dire parole incomprensibili con la sua amica. Una volta si infilò tra me e lei un suo collega e sorridendo gli passai il vassoio pensando fosse lei. Mi sorrise anche lui stringendo gli occhi e la bocca. Allungò la mano per sfiorare la mia con l’indice ma presi prontamente un filoncino di pane con l’altra mano e glielo misi tra il vassoio e la mano che stava venendo verso la mia. Gli dissi “I carboidrati non bastano mai”.
Mi fece lo sguardo triste. Intanto continuavo a seguire lei con lo sguardo per vedere ogni volta quello che prendeva per poi allinearmi alla cassa in modo da provare la difficile manovra “mangiare accanto a lei”.
Una volta la seguii ma stava andando a mettere l’olio e il sale nell’insalata, l’amica le prese l’unico posto libero e mi toccò strambare come Luna Rossa verso un tavolo di vigorosi metalmeccanici che analizzavano i culi delle receptionist con tanto di scheda tecnica su spessori e tolleranze.
Un’altra volta riuscì a sedermi accanto a lei. Stavo per dire “Oggi lo spezzatino sembra buono” ma alcuni colleghi la chiamarono ad unirsi a loro lasciandomi solo a parlare con lo spezzatino.Poi accadde che un giorno venne da sola, niente collega gay, niente amica. Mi capitò davanti in coda e fu lei stavolta a passarmi il vassoio. Non mi sembrava vero. Andava tutto a meraviglia. I nostri vassoi strisciavano felici uno accanto all’altro lasciandosi spingere dalle nostre mani. Alla frutta, nel prendere la macedonia, tentammo di prendere lo stesso bicchiere. “Anche a te piace l’ananas?” mi disse. “Non saprei vivere senza” fu la mia risposta. I cinque secondi più lunghi della mia vita. Alla cassa andò prima di me e pagò due caffè. Stavo per toccare il cielo con un dito. Mi stava offrendo un caffè. Le dissi “Ma dai non ti preoccupare” e lei “Ieri non avevo pagato il caffè e avevo un sospeso, non ti sto pagando il caffè”. Dopo aver toccato il cielo con un dito dovetti incassare con eleganza un gancio alla George Foreman contro Joe Frazier. Mi appoggiai alle corde, ripresi fiato e “Ci sediamo lì?” e lei “Si dai, così mi fai uno storytelling di te, del tuo w-i-p, della tua to-do-list”. Il tempo sembrò fermarsi. La guardavo e mangiavo l’ananas a pezzetti piccoli piccoli e lentamente pensando di mangiare lei. Al caffè ci salutammo. Avevo stabilito un contatto. Ero felice. Lei uscì dal self service, corse incontro ad uno che l’abbracciò forte e si baciarono a lungo come se non ci fosse un domani. Intanto la mia mano stringeva un bacio perugina di cui rimase intera solo la nocciola. Il mio sogno si era squagliato lasciando solo un biglietto “Quando si chiude una porta si apre un portone”. Non feci in tempo a pulirmi la mano che una voce alle mie spalle disse “La linea della vita è coperta di cioccolata, avrai un futuro dolce.” Era il collega a cui avevo dato il filoncino. Ora abbiamo una rosticceria e viviamo ad Ortucchio, il paese dei suoi, a pochi chilometri dal Parco Nazionale d’Abruzzo.